ANNO 2001 di Franco Fanelli
La mostra, sulla carta, è già fatta quella sera di marzo: una parete densa come un mosaico, gremita dei pastelli e dei loro pulsanti pigmenti; a fronte, la pulsazione si "normalizza", anzi si rarefanno i suoi battiti, sino a pervenire a un bioritmo ipnotico: il grande dipinto (pare polvere di marmo, in quell'alabastrina monumentalità del "paesaggio" domestico solcata dal nudo disteso) è la zona-filtro, schermo che purifica e "defolia" le immagini lasciandosene trapassare. Se un allestimento deve, com'è d'uso oggi, armonizzare le esigenze estetiche e quelle didattiche, la mostra di Valeria Scuteri drammatizza il contrasto tra la concrezione di gesti e di materie della parete dei pastelli e la loro purificazione in quella dei disegni.
Mi dice, in fatti, che il punto di partenza è il magma dei primi e che l'approdo è il segno filiforme, che taglia come un laser la pasta gialletta dello spolvero. Le propongo un'analogia, in questo percorso che inverte l'ordine classico del processo dell'opera d'arte - dal "dipinto" al disegno, e, nel caso della Scuteri, dalla "carne" fisica dell'opera all'immaterialità del pensiero - con buona parte delle sorti delle ricerche maturate nella seconda metà del Novecento, tese alla percezione (e quando possibile alla visualizzazione) della primarietà dell'atto artistico. II "so di non sapere (e per questo, per trovare, ricerco)" della Scuteri si traduce in una subitanea ritirata da un'eventuale collocazione del suo fare in un qualsiasi "trend": e parla dei suoi maestri reali ed ideali: Deabate, Devalle; Mantovani. Schiele. Per rassicurarla, le diciamo che il disegno come forma e atto <<mentale>> non è peculiarità del 900 contemporaneo soltanto: che in questo segno come <<forma mentis>> c'è spazio per un'astrazione (sintetica) non soltanto riferibile a quella dissoluzione della narrazione come cifra di riconoscibilità del Modernismo. A mente, appunto, le citiamo Pisanello, la Commedia interpretata da Botticelli, financo le historie raccontate sul filo della tavoletta xilografica nell'Hipnerotomachia Poliphili. E poi le angolosità di certi panneggi tedeschi, le mani, tanto eloquenti, che dalla Pala di San Bartolomeo di Durer raggiungono, attraverso il segno per nulla compiacente della maniera tedesca a bulino, Pontormo.
Crediamo che il riferimento a una qualche narratività possa "convincere" Valeria Scuteri, le cui microstorie, ricomposte in gesti simbolici e definitivi ancorché legati a una riconoscibile iterazione della quotidianità, assumono valore di metafora di un vivere e del mal di vivere, insomma di un'esistenzialità imperniata nel sinonimo-antinomia uomo-maschio; con la costante della presenza felina, a ricomporre una più suadente e lieve iconografia della Malinconia alla luce del dialogo uomo-animale. Anatomie a memoria, dunque, che diventano registrazione della memoria del presente: disegno, in tal senso, come pratica quotidiana necessaria sul doppio fronte della preservazione della <<mano>> e della diuturna captazione di un tempo che, necessariamente, va poi sunteggiato, come un veridico verbale, attraverso le posture significanti dell'immagine. Un presente che altre artiste contemporanee alla Scuteri interpretano alla luce di non meno dichiarate metafore della femminilità e di irrisolte problematicità (il ricamo per Ghada Amer, le scritture coraniche per Shirin Neshat, il telaio-macchina-per dipingere di Rosemarie Trockel). Quella di Valeria Scuteri è un'arte del presente che può fare a meno sia del neomonumentalismo installativo sia della fotogenia del manufatto: per questo insistiamo, le piaccia o meno, su una predominante concettuale (che non è concettualistica) basata su situazioni narrative esplicite perché elementari,
<<eterne>> perché primarie; a volte dolorose perché radicali.
ANNO 1999 - VALERIA SCUTERI, Descrizioni e Considerazioni di Pino Mantovani
Rispetto al tema, partiamo da un’evidenza ovvia: sono tutte figure maschili nude (mi riferisco alle opere in mostra, grandi dipinti su tela, dipinti medi su carta, disegni; senza escludere che l’artista abbia operato su differenti soggetti), ovvero “nudi”, manifestazione classica della bellezza estetica e morale. Vorrà pur dire qualcosa. Altrettanto evidente, rispetto alla maniera, che Valeria Scuteri è in primo luogo una disegnatrice sicura e robusta; la pittrice può muoversi di conseguenza su materia e colore senza bisogno di rifinire, forzare e dimostrare, usando un termine di radice umanistica si direbbe con “sprezzatura”, che è grazia non affettata, superiore dissimulato artificio.
Unificando i due dati, anzi tre - chiarezza tematica, sicurezza di costruzione, padronanza senza esibizione, potremmo concludere che ci troviamo davanti a un caso, attualmente piuttosto raro, di pittura insieme rigorosa e generosa.
Ma subito - anche questo è evidente - notiamo che le figure in questione rappresentano il nudo o in stato di totale abbandono, tanto da richiamare la morte o meglio una stanchezza “mortale” (vedi la postura distesa, l’allentamento delle giunture, lo scivolare degli arti per il venire meno di un controllo muscolare e nervoso), o in stato di forte agitazione (vedi la postura eretta, con gli arti inferiori e specialmente superiori divaricati e le mani con le dita distese in un gesto eloquente di sorpresa e disperazione). Si potrebbe anche dire, in sintesi: da una parte un corpo privato della propria tensione vitale (segnale ulteriore, il crollo del monumento sessuale), dall’altra un corpo debilitato per eccesso di tensione; ma sempre un corpo che manifesta nelle proporzioni ed articolazioni classiche un’essenziale dignità, per così dire riguadagnata proprio dove il controllo razionale cede e torna la originaria “nudità”.
Si potrebbe, sempre rispetto all’iconografia, rilevare che la nudità distesa è rappresentata di profilo o tendente al profilo (almeno finora), così da richiamare la figura del Cristo deposto o meglio esposto (Holbein, Dürer, Carpaccio...fino alle accademie “moderne” e relative variazioni), ma anche, laicamente, la figura del morto da tavolo anatomico (mi sovviene anche una tavola di “Anatomia artistica” del Morelli, un testo credo ancora utilizzato quando Valeria frequentava il Liceo, e già la conoscevo) o, per finire nel quotidiano, lo svestito spossato dal caldo su una spiaggia estiva; mentre la nudità eretta è, almeno negli esempi in mostra, di schiena, disposta davanti ad un limite immediato ovvero ostacolo contro il quale quasi si schiaccia, al punto che la figura - a questo contribuisce un’aggressiva luce endogena - potrebbe visivamente apparire incastrata nell’oscuro che incombe (qui mi vien di pensare più che a una icona ad un’invenzione letteraria come quella degli “uomini cavi” di Dumal, bolle d’aria e di luce incorporate nella roccia del “Monte analogo”; e se proprio ad un’immagine, a certi effetti di trasparenza e ambiguità che le nuove tecnologie della luce hanno perfezionato, raccogliendo intuizioni almeno dal simbolismo - tra Redon e Seurat). Se il modello è tratto da occasione cronistica, potrebbero essere corpi umiliati da una impotenza provocata: per esempio, colti nell’atteggiamento rigido del condannato o del perquisito.
Visto che ho notato qualcosa sul rapporto figura-fondo, rispetto ai nudi in piedi, analogamente rilevo, rispetto ai distesi, che in essi il grado di potenza luminosa è così forte da provocare il magma circostante (il colore chiave è il giallo, caldo verso l’arancio e addirittura il rosso; freddo, verso il verde addirittura il blu), fino, quasi, all’assimilazione. “Quasi”, perché sempre la traccia potente del disegno, preciso anche quando appena toccato, delinea il corpo, ne ghiaccia, per così dire, la tentazione diffusiva, ne rinserra l’identità fisica e spirituale.
Eppure, l’uno individuo non è solo, anzi ha almeno un analogo compagno: visibile (dove l’altro si dispone parallelamente, identico e leggermente variato specialmente nella dislocazione degli arti) o invisibile (dove l’altro, possiamo immaginare, si dispone specularmente dalla parte nascosta del limite).
Il destino è comune: destino di nascita, riproduzione e morte. Questo mi dice Valeria Scuteri accennando ad una sua “filosofia di vita”; che potrebbe lasciarmi indifferente o perplesso, se non si manifestasse in modo così convinto e convincente nell’immagine realizzata. Valeria mi mostra, più con pudore che con reticenza, il percorso che la conduce agli esiti più impegnativi: parte da un’emozione che balena in figura, passa attraverso una serie di elaborazioni dal vero e in studio dove l’emozione e la figura intuita assumono poco alla volta una precisione senza sbavature, raggiunge una sicurezza che libera il gesto e il gusto dai vincoli dell’approssimazione espressiva. Come a dire che quasi niente è lasciato al caso, ma proprio perché solo così l’eros fondante - per dirla più o meno come Platone - mantiene tutta la sua potenza, senza bruciare la figura che lo porta e rappresenta. E’ da quel nucleo che cresce quello che Valeria non chiama filosofia ma racconto, è nella pittura che il racconto assume corpo, il più bello e convincente possibile. Necessario.
ANNO 1992 - L’INTENSITA’ DELLE EMOZIONI, di Angelo Mistrangelo
La stagione della pittura di Valeria Scuteri si identifica con l’intensità delle emozioni, con il fluire dei ricordi, con l’energia della linea che circoscrive le figure.
Si tratta, quindi, di una <<scrittura>> intrisa da una sorta di vitale partecipazione agli avvenimenti quotidiani, dal richiamo a una visione delle cose che, di volta in volta, entrano a far parte della sfera dei sentimenti, delle trepidanti attese, delle sottili inquietudini.
Il suo dettato appare segnato dalla cadenza delle impressioni, di un <<dire>> che lega l’<<Immagine codificata>> dell’uomo con la cravatta, colto nel momento in cui la indossa, alle consuetudini, alla ricerca di una propria dimensione, di un proprio modo d’essere e, talora, di imporsi.
Accanto a quest’uomo ne scopriamo un altro con il volto assente, lontano, cancellato dal dolore.
Da questa raffigurazione emerge, in ogni caso, il rapporto dell’artista con il padre scomparso, l’antica complicità, il suono della voce, i gesti ripetitivi che solcavano l’atmosfera con un fare lento, misurato, meditato come la sequenza del pensiero di un’intera esistenza.
I suoi disegni dal segno forte e incisivo, i dipinti dal colore avvolgente, vibrante di un’interiore energia, caratterizzano la serie degli <<abbracci>> ricchi di una suggestiva volontà di comunicare di avvertire il fascino di un incontro, di una tensione che si sprigiona dalle figure emergenti dal fondo.
E in questo articolarsi della linea prendono forma i giocatori di una squadra di calcio nell’attimo esultante della gioia.
Pittura, perciò, come testimonianza della vita, dei sogni non concessi, dei silenzi significanti.
ANNO 1981 - VALERIA SCUTERI, di Paolo Santarcangeli
Quando si osservano i dipinti della giovane Valeria Scuteri, una cosa soprattutto risulta evidente: la sua volontà, quasi aggressiva, per non dire violenta o appassionata, di conoscere, comprendere ed esprimere il mondo attraverso il proprio temperamento, le proprie risorse ed il proprio stile. Dicendo ciò , ci riferiamo in particolare ai suoi paesaggi, pieni, diremo quasi grondanti di luce, in qualunque luogo o stagioni essi siano collocati. Così come ci pare chiaro, in questa pittura, il predominare di un temperamento giovanilmente aperto al mondo, non privo di passione.
Ci rendiamo conto, naturalmente, del carattere generico di simili constatazioni: le menzioniamo tuttavia perché, nelle figurazioni della persona umana che abbiamo potuto vedere, questi aspetti sono come frenati per un verso ed esaltati per l’altro, in un’autentica ricerca della verità individuale. Ciò è reso manifesto, ed espresso non senza un sentimento d’angoscia, nell’impressionante “Studio di donna malata”, su cui si diffonde un sentimento della fine vicina, del disfacimento, al di là, ormai della coscienza; o nella immagine della giovane raccolta in una posa che possiamo interpretare come difesa, stanchezza o soltanto riposo. A questa ricerca si potrebbe anche dare il nome, assai impegnativo, di pietà, nel suo duplice significato di senso religioso dell’essere e di volontà di partecipazione al variare infinito dei destini umani.
ANNO 1978 di Piero Bargis
Se il più notevole effetto dell’avanguardia storica consiste nell’aver spostato i termini del rapporto fra il lavoro di altissima qualità e il lavoro che non ha nessuna qualità, in quanto generico e indifferenziato per tutti, secondo una recente affermazione di Alberto Asor Rosa, e se è vera l’utopia politica della più recente avanguardia estetica, che i poeti devono parlare il linguaggio di tutti e tutti devono parlare il linguaggio dei poeti, ne discende in modo perentorio la crisi della forma, la perenne difficoltà fra artista e potere, una mentalità di negazione e disgregazione sino alla morte dell’arte, funereo rintocco, che ripreso per li rami fin da Hegel, risuona ormai come un aristotelico “ipse dixit”. In attesa di un mondo rigenerato da un indicibile tracciamento storico, i giovani si dibattono in una rissa sino ai limiti di una feroce crudeltà per la nuova tavola dei valori, e gli anziani li guardano ora sbigottiti, ora inteneriti pensando al lungo travaglio della loro vita, che giunta la tramonto raccoglie frutti così spinosi e attossicati.
Ma da questa furia contestativi emergono qua e là delle oasi di una gioventù che, seppure risente del generale clima di angoscia, di smarrimento, di disperazione, memore che niente è nuovo sotto il sole, cerca di dominare questo stato d’animo, di unificare le lacerazioni, di ricucire gli strappi, di guardare con occhio intrepido sull’esempio di grandi maestri ancora così vicini a noi, come Cézanne, Van Gogh, Soutine, Kokoschka, che hanno ricreato il mondo a loro immagine e somiglianza, pronti a vincere e a perdere nello stesso tempo, se questa è la croce che dobbiamo portare.
Certo il linguaggio contemporaneo si flette in una polivalenza di ritmi spesso intransitivi e riduttivi in cui la comunicazione si estenua in palpiti lievi come un’ala di farfalla oppure prorompe nell’esasperazione dello shock iperrealista; comunque se – e mi sia concesso di ripetermi – è vera l’ipotesi dell’americano Kubler, che per quanto riguarda le grandi matrici formali “les jeux sont faits” non mi pare che debba essere così dogmatico il pre ed il post, come osservava recentemente Norberto Bobbio a proposito di certe idee, che sembrano vecchie e invece sono sempre nuove, come quella dell’intellettuale che deve essere indipendente rispetto al poter. Le grandi matrici linguistiche riservano sempre ancora un piccolo filone per i ricercatori pazienti e fedeli: se il maestro del coro è Cézanne o Van Gogh o Soutine o Kokoschka, chi non vorrebbe cantare con tali maestri e aggiungere la sua piccola voce – purché autentica – a variazione di quei temi quasi all’infinito?
Questi pensieri rimuginavo fra me e me scendendo interminabili rampe di scale dallo studio di Teonesto Deabate, dove avevo visto i quadri di una pittrice poco più che ventenne: Valeria Scuteri. Diplomatasi al Liceo artistico della nostra città, dopo aver frequentato alcuni corsi dell’Accademia, ha preferito “andare a bottega” come dicevano gli antichi, nello studio di un artista di larga notorietà e di grande esperienza. Dipingendo così quasi a fianco, giorno dopo giorno, si è intrecciato fra l’anziano maestro e la giovane allieva un dialogo fitto di liberi suggerimenti su una malizia tecnica, un rapporto cromatico, un lume troppo estenuato o troppo forte, un maestro del passato o del presente; singolare è la libertà da grammatiche e sintassi prestabilite che De Abate lascia ai suoi discepoli, limitandosi ad acuire la loro sensibilità e la loro passione con l’esempio di una vecchiezza verde e vivida, punteggiata da un ironico spiritello, pungolo sempre desto nella sollecitazione al buon lavoro.
<< …I frutti dell’indipendenza d’una tale libera formazione si colgono ad un esame attento delle opere della Scuteri, che innanzitutto si qualifica subito con una maturità di visione per i suoi giovani anni non certo frequente, per il robusto impianto compositivo che non elude le difficoltà anzi le cerca di proposito, nella scansione non geometrica ma emotiva dei piani, impregnata tuttavia di un robusto plasticismo, che nasce dall’esattezza dei rapporti cromatici. Questa ragazza calabrese trapiantata ancora bambina nella nostra città, ama spesso ritornare nel profondo sud di Riace o di Stignano e là come stupefatta ritrovare i suoi, cari ermi colli, i monti azzurri, il verde profondo della macchia, i gialli dei poggi; s’intreccia allora “un dialogo panico”, che sorge dall’intimo della sua coscienza, che ha bisogno di ricacciare indietro, sempre più indietro, il velo dell’ottica naturalistica per la sostituzione d’uno spazio emozionale ad uno spazio illusionistico. Nasce dalla strutturazione delle masse, dei blocchi il senso di un’energia compressa, trattenuta a stento, che circola ad animare luci e colori…>>
Si potrebbe richiamare, per intendere a fondo la poetica e la linea di lavoro di Valeria Scuteri, quanto è stato detto autorevolmente a proposito di un grande maestro come Cézanne che “sembra animato dalla preoccupazione di inserimento dell’immagine in uno spazio, la cui definizione prospettica è variata in confronto a quella tradizionale ed in cui alla trasparenza atmosferica del colore impressionista, sostituisce una compattezza di struttura, che rende la composizione un organismo unitario”.
A proposito di quell’empito energico che sembra travalicare da ogni molecola dello spazio della Scuteri, si sosti un momento dinanzi a “La quercia”: una visione immensa eppure tenuta con mano salda e ferma, senza una minima debolezza d’impianto. Per un gioco ottico di straordinaria suggestione la quercia sembra dominare il paese sottostante: la natura rupestre e selvaggia, i verdi cupi, i gialli intensi, i blocchi delle case concorrono alla mitica rivelazione di un particolare genius loci. A toccare la misura del talento della nostra giovane artista si osservi: “Monti azzurri”; un quadro complesso, irto di difficoltà tecniche nella struttura dei piani, nella ricchezza plastica e cromatica, risolto d’impeto. Si ha come l’impressione che da un caos primigenio sia appena sorto il mattino del mondo, un cosmo brillante di luci, di colori, di forme appena assestate, che comincia a vivere; una natura mossa, perennemente in fieri, in piena osmosi con l’artista che realizza una sorta di “panismo” in cui i viola diafani, gli azzurri profondi, i verdi limpidi, i gialli plurimi, nel digradare dei piani ritmati da un’aperta e libera sintassi, assurgono a rivelazione di una riconquistata auroralità.
Così in “Cielo e terra” si avverte come un’ansia di infinito che emana dal procedere per sintesi, eliminata ogni sovrapposizione, d’uno scandaglio in profondità: il cielo appena velato di nubi dorate, il tondeggiare ondoso della marea di cocuzzoli e la gamma vibrante dei gialli fulgenti o riarsi, in contrapposizione alla sontuosità dei verdi, sono il dono d’una fantasia che tende all’universale.
Frutto fra i più singolari di quell’impetuosa energia che anima la Scuteri, ci sembra “Vento e paese”: un quadro di anomala impaginazione, un taglio che può richiamare Soutine, specie in quei blocchi di case distorti da una furia ventosa, battuti da una luce folgorante, cui si contrappone la profonda e ombrata concavità del primo piano. Apparizione visionaria, poesia decadente con le sue tipiche illuminations. Chi voglia cogliere la ricchezza della tastiera cromatica di quest’artista, osservi in “Ulivi” come il verde sia stato tentato in modo quasi esaustivo, mentre sul fondo, in un lieve cubismo, brilla la solarità delle case e la linea appena accennata del cielo. Come poi essa si compiaccia di difficoltà cromatiche insidiose nel contrappunto mosso e drammatico, lo dimostra il “Bouquet della sposa”: i fiori recisi ricominciano a vivere come se fossero ancora interrati, ma è lo spirito della pittrice che li alimenta di nuova vita, rendendo persino luminosa e trasparente una materia vile come il cellofane che li incartava.
ANNO 1976 - VALERIA SCUTERI, Ernesto Caballo
Dal suo maestro Teonesto Deabate la giovanissima Valeria Scuteri ha imparato a sottoporre i paesaggi ai propri ritmi: con un felice atto comunicativo viene trasmesso il senso dei paesi, delle cose in uno spazio che è ancora euclideo, ma pur sempre spazio contemporaneo (questo discorso lo eludiamo subito perché esigerebbe capitoli). E’, piuttosto, la “naturalità” propostale dal maestro che Valeria osserva ed adempie, con un colore organizzato, modulato, senza cromie urtate né oscillazioni di tono; eppoi; c’è la nozione meteorologica, altro assunto deabatiano, puntuale, che costituisce una dato positivo.
Valeria ci aggiunge di suo una geografia più accidentata, specie negli acquarelli, nelle chine delle terre del Sud, della costiera jonica, dove lei ritrova davvero la sua matrice; non c’è nessun calcolo per sfuggire all’immediatezza, ma altrettanto evidente appare che la pittrice si interroga, ed ha risposte, uscite poetiche personali (che poi sono la giustificazione della presente mostra); si avverte uno scavo interiore in queste scenografie espanse, se ne ha, talvolta, l’impressione di una plasticità avvolgente, che non esclude però la concisione del segno, fatto tutt’altro che consueto in chi esordisce.
Analoga osservazione vale per le nature morte: questo “appuntamento con il quotidiano” avviene mediante saldi appoggi visivi e lo studio inteso a portare le cose alla loro origine: insomma, un fermo patto di amicizia con la natura. Gli accordi sono calibrati, ma l’insieme, a quando a quando, si prepara a una nuova accensione; anche per le tele di frutti, fiori, funghi di Valeria è concesso dire che sono “ceste piene di colori”. Il rilievo è spiccato poiché dalle due dimensioni se ne può raggiungere una terza. Infine, è lecito vedere un’aspirazione a sfrontierare da un certo impressionismo, e lo confermano altri quadri della mostra, ricchi di organizzazione ornamentale che diventa, non di rado, costruttiva: in particolare, le composizioni con maschere, alcune delle quali vorremmo definire maschere dell’inquietudine riferendoci non già a scelte esistenziali bensì al proposito, per Valeria, di ricerca di nuovi orientamenti.
Le figure, i ritratti – rari in questa personale, - sono la spia di una latente misura espressionistica; di tutti i soggetti, le dice di preferire la figura umana che, a cominciare dal puro tragitto anatomico, rappresenta a noi stessi il nostro destino.
Qui è il ritmo, la tensione della “scrittura” a inventare la forma, e ciò non significa prospettiva contraddittoria sapendo che negli artisti giovani l’opera ha per necessità i suoi nessi divergenti.
Importa solo riconoscersi nel proprio lavoro, liberandosi da problematiche inutili nonché dal fastidio delle profezie e dei sistemi preformati. Una libertà che, primo fra tutti, il suo maestro Deabate le propone e che Valeria riesce ad amministrare bene, così come sa svolgere linearmente la sua teoria della giovinezza.